18 maggio 2010

Moneta e fiducia: argomenti per un corso di sociologia


Per qualche anno, ho tenuto un corso di sociologia per gli studenti di Economia bancaria del secondo anno. Durante una delle prime lezioni, alla domanda “Come riuscite a convincere il fornaio a darvi il cibo in cambio di un pezzo di carta con su scritto 10 euro?” ricevetti in risposta sguardi attoniti, come se io fossi impazzita, oppure venissi da un altro pianeta.

mercanti medievali

Non voleva essere un esperimento etnometodologico, e decisi quindi di introdurre il tema della modernizzazione (il primo o secondo capitolo della gran parte dei manuali di sociologia) partendo dalla storia della moneta. L’idea era quella di mostrare la complessità e le interdipendenze che rendono possibile il funzionamento del mercato come istituzione sociale, e non come prodotto naturale di meccanismi di scambio altrettando naturali. Ma che tanto “naturali” evidentemente non sono, visto che ogni tanto, “inciampando” in altre logiche, smettono di funzionare.

La fiducia
Una cosa risulta infatti chiara non appena ci si ponga il problema: e cioè che il sistema deve dimostrare di essere affidabile, proprio perché la gente comune non è in condizione di capire come funziona esattamente. Altro che scambio fra individui: servono apparati istituzionali e normativi complicatissimi affinché dei pezzi di carta senza immediato rapporto con le riserve auree possano fungere da moneta. E la gente ci deve credere.

Da questo punto di vista, il passaggio dalla carta alla moneta elettronica è stato quasi esclusivamente un mutamento di tecnologie, che certo ha contribuito a rendere ancora più opaco il sistema - non solo, sembrerebbe, agli occhi di chi (come me) non sa quasi niente di alta finanza. Ma il più è stato fatto nei sei o sette secoli precedenti.

D’altra parte, è proprio perché i meccanismi sono così complessi, che sono tanto fragili. Può bastare poco, per portare il sistema sull’orlo del baratro. Ed in effetti, è accaduto nel corso della storia recente che il fornaio non fosse più disposto a prendersi la carta in cambio del pane.

weimar
Il primo anno avevo un po’ di difficoltà a trovare esempi di attualità sui quali indurre gli studenti a riflettere. Dovevo ricordare foto come questa qui accanto, famosissima, di bambini che giocano con mazzette di marchi durante la crisi di Weimar, o ricordare la crisi del ‘29. Riferimento, quest’ultimo, che li rianimava, visto che il loro mondo aveva avuto origine con la conferenza di Bretton Woods e non si erano mai posti il problema di quando e come la carta avesse sostituito l’oro, né di come potessero andare le cose nel Medioevo, quando le banche erano “banchi” a tutti gli effetti, ma in definitiva l’Europa aveva scambi commerciali non solo nel Mediterraneo ma persino con il lontano Oriente.

northern rock

Un paio di anni dopo, avrei potuto utilizzare per le slides le immagini delle persone in fila per ritirare i loro risparmi dalle banche, o dei dipendenti di istituti finanziari il giorno prima considerati affidabilissimi, e che il giorno dopo avevano chiuso i battenti.

Agli inizi della crisi del 2008, l’argomento del dibattito era la moralità: alcuni (pochi o molti, non mi è mai stato tanto chiaro) avevano ingannato e truffato, ed avevano immesso sul mercato titoli-patacca, ingenerando una crisi di fiducia generalizzata, che aveva fermato la circolazione monetaria. Due cose dunque servivano: nuove regole per “cattivi ragazzi” reali e potenziali, e nuove immissioni di moneta per far ripartire l’economia. Un piccolo superamento del neoliberismo, più che altro sul fronte del ruolo dello Stato.

La moneta venne immessa ma - dopo quasi due anni - comincia a sorgere il dubbio che in tempi di globalizzazione una seconda Bretton Woods non sia tanto facile da organizzare, mentre i singoli stati non hanno più la necessaria capacità di garantire il rispetto delle regole.

Quest’anno, con gli studenti di sociologia, avremmo potuto lavorare sugli effetti della globalizzazione sulle istituzioni politiche in generale, ed in particolare sulla fragilità di un sistema monetario non garantito - in pratica - da istituzioni politiche capaci di intervenire efficacemente su eventuali comportamenti scorretti, speculativi o molto più banalmente (e frequentemente) opportunistici.

Per le slides, naturalmente, le foto dell’Ecofin al gran completo.

Immagini tratte da: http://www.homolaicus.com - http://1.bp.blogspot.com - http://www.bitsofnews.com - http://www.ilgiornale.it

1 commento:

  1. Mi permetto un paio di note da quasi ex-studente di sociologia "atipico", cioè in perenne conflitto coi miei maestri e insegnanti.
    Il fatto che il "mercato" sia un'istituzione sociale, da Durkheim a Polanyi, è una delle prime cose che vengono insegnate nei corsi di sociologia: ma cosa si intende di preciso con ciò? Che il mercato è stato "progettato"? O che richiede delle istituzioni per funzionare (borse valori, diritto civile, mercati come luoghi fisici, comunicazioni, ...)? La prima posizione mi è sempre parsa particolarmente assurda. La seconda, che mi sembra in realtà corrispondere all'analisi dei modelli di integrazione di Polanyi, in realtà non confligge in alcun modo con la visione dei teorici "liberisti", da Smith ad Hayek (ad eccezione forse degli anarco-capitalisti à la Rothbard, che costituiscono comunque una minoranza totalmente screditata all'interno della teoria economica): il mercato necessita di istituzioni, che nascono per risolvere i problemi sorti da milioni di scambi indipendenti. In tal senso non ho mai compreso l'opposizione così radicale, presente nei manuali di sociologia, tra le teorie del mercato come "processo naturale" e le teorie più "istituzionali". La visione del mercato come processo "dal basso" non esclude in alcun modo la possibilità che da questo sorgano istituzioni (su questo si era soffermato piuttosto bene già Hume).
    Il mercato è un meccanismo delicato, verissimo: per un largo periodo della mia vita ho pensato che qualunque patatrack fosse causato dal cattivo funzionamento dei mercati causato dal ritrarsi dello stato nella gestione dell'economia. Poi è arrivata la crisi del 2007 e ho cominciato a pensare in modo più critico, cercando di abbandonare vecchie certezze e provare a esplorare nuove strade. Illuminanti, nello spiegare la crisi, per esempio, il ruolo di Fannie Mae e Freddie Mac e della loro regolazione, i Fed funds tenuti a zero sparato per troppo tempo, le garanzie esplicite date dalla FDIC, i precedenti storici di interventismo nella Savings and Loan crisis e nel crack del LTCM che hanno fornito garanzie implicite, il Greenspan put, le garanzie della Federal Housing Administration. Mi chiedo: erano queste istituzioni "di mercato"? Cosa c'entra il "neoliberismo" con tassi di interesse artificialmente spinti a zero in funzione espansiva, con garanzie pubbliche esplicite e implicite a ogni tipo di comportamento economico anche il più truffaldino, con una gestione pubblica dell'erogazione del credito per aumentare l'homeownership (due bei libri recenti sulla crisi, Getting off track, di John Taylor, e Fault Lines, di Raghum Rajan, fanno il punto in modo piuttosto convincente)?
    In questo secondo me la sociologia, visto che tra Spencer e Durkheim pare abbia vinto il secondo, si trova parecchio indietro, continuando ad abbracciare una visione dell'ordine sociale come "organizzato" piuttosto che "organizzante" e cercando piuttosto automaticamente le cause di organizational failure in una mancanza di regolazione, piuttosto che, almeno come working hypotesis da sottoporre a controllo e scartare, in una sua forma cattiva o semplicemente eccessiva.

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