Molti i sociologi che in quest'ultimo decennio hanno sottolineato come, in un contesto di globalizzazione, una delle dimensioni sulle quali si rendono oggi più evidenti le diseguaglianze sociali ed economiche è quella territoriale (trovate qui i link a due testi della più nota, Saskia Sassen). Se è vero che sui mercati globali la dimensione "locale" e la "tipicità" possono diventare valore aggiunto per tanti prodotti, è anche vero - e non andrebbe mai dimenticato - che i territori rischiano di diventare sempre più marginali, rispetto alle traiettorie del potere, quello "vero".
Le nostre comuni vite quotidiane sono infatti "localizzate" (lavoro, affetti, amicizie), mentre le élites globali sono svincolate dai territori (leggi: gli Stati) nello svolgimento delle proprie attività (economiche e finanziarie), e sfuggono quindi al controllo politico: sono praticamente libere di fare quello che ritengono più giusto e vantaggioso.
L'indifferenza allocativa delle loro attività e delle loro vite, unite alle quantità di risorse che sono in grado di investire e di muovere, conferiscono loro un enorme potere nei confronti degli Stati: «Se volete che io produca qui, mi dovete offrire delle condizioni vantaggiose (rispetto ad altri Stati)». «Se volete che io dichiari i miei redditi qui, dovete ridurre l'imposizione fiscale». Si arriva così al punto di dover introdurre vantaggi fiscali a favore dei più ricchi. Pagati in pratica affinché non se ne vadano.
I comuni 'cittadini', invece, non solo non possono trasferire le loro (poche) proprietà qui e là, ma non possono neanche svolgere il proprio lavoro stando in barca con l'ipad - devono andare in una specifica fabbrica o in uno specifico ufficio; non possono cambiare cittadinanza a piacimento; hanno difficoltà quando emigrano in quanto non conoscono 5 o 6 lingue e non hanno entrature nelle capitali globali.
Sono in una parola legati al territorio sul quale lo Stato esercita la sua sovranità. E mentre ci aspetteremmo che da questo vincolo (spesso pensato anche come vincolo di fedeltà allo Stato) discenda qualche diritto in più rispetto alle scelte politiche, è facile rendersi conto che invece accade esattamente il contrario: a proporre soluzioni politiche per il nostro paese, o a pontificare su tasse e contributi di solidarietà, a suggerire indirizzi di politiche industriali sono sempre più spesso ... cittadini svizzeri.
Scandalizzarsi non serve a molto, però, di fronte a cambiamenti di questa portata. Dobbiamo fare i conti con un mondo globalizzato, che va avanti con o senza di noi. Per almeno quindici anni abbiamo fatto finta di niente, ma la soluzione non è certo chiudersi nei vecchi modelli, sperando che la globalizzazione passi da sola, o si fermi al Piave. Abbiamo fatto tanto (a mio avviso sbagliando) per impedire che gli stranieri investissero i loro capitali qui (comprassero le nostre imprese), ed oggi ci accorgiamo che straniere sono diventate le nostre stesse élites.
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