4 giugno 2012

Disintermediazione e rappresentanza: aspettare per credere

pubblicato su Professionalismo.it

Il termine “disintermediazione” — come testimonia la pagina italiana di Wikipedia ad esso dedicata — inizialmente è diventato di uso comune soprattutto in ambito business, per indicare il venir meno del ruolo e del peso degli intermediari nelle transazioni commerciali o finanziarie.

In tale prospettiva, il primo e fondamentale vantaggio della dis-intermediazione è costituito dalla riduzione dei costi di transazione; ma anche da una sino ad allora impensabile apertura del mercato ad operatori molto piccoli, che possono avvantaggiarsi non solo appunto della riduzione dei costi, ma anche del venire meno di certe rendite di posizione che le stesse funzioni di intermediazione possono creare.

Gli intermediari, infatti, non solo devono ricavare un guadagno dal loro lavoro, ma spesso riescono a conquistarsi un ruolo di “guardiano” (gatekeeper) di certi canali. Nel momento in cui “presidia” un certo canale, cioè, l’intermediario seleziona contenuti e prodotti, facendoli transitare da un sistema ad un altro: una istanza sociale che diventa proposta di legge, ad esempio, costituisce a tutti gli effetti una traduzione; così come un accadimento che diventa “notizia”.

Il web 2.0 ha portato ulteriormente avanti questo processo, introducendo ulteriori possibilità. La prima è quella di relazioni (fiduciarie) uno-a-uno, simili a quella fra il professionista o il commerciante e il cliente “affezionato”, ma a distanza.


Inoltre, l’“intelligenza collettiva” — ovvero il lavorio di discussione pubblica ed insieme di selezione collettiva dei contenuti o dei prodotti di valore o di qualità — sta mettendo in questione il ruolo dei professionisti dell’intermediazione (i giornalisti, ad esempio, ma anche i politici) anche sul piano cognitivo.
Diversi sono a questo punto gli interrogativi che tali trasformazioni — sociali, e non solo “mediatici” — sollevano fra gli esperti.
  • Nel campo della rappresentanza (politica e non solo), gli intermediari aumentano i costi di transazione o li riducono? E in quali termini è corretto valutare tali costi? Solo in termini economici o anche facendo riferimento alla moneta sonante della fiducia?

  • Il venire meno dell’intermediazione accrescerà o ridurrà la fiducia nelle istituzioni e nelle forme associative tradizionali?

  • E ancora: può l’“intelligenza collettiva” sostituire la professionalità degli intermediari? E questo, nel caso, costituirebbe una soluzione efficiente e praticabile in ogni situazione? In che modo? E in quali situazioni?

  • È possibile sfruttare i vantaggi della disintermediazione per migliorare il rapporto fra rappresentati e rappresentanti e favorire la partecipazione dei rappresentati ai processi di “traduzione”? E questo, fino al punto da arrivare alla democrazia diretta o solo in forme parziali?
Quest’ultimo interrogativo ci traghetta verso l’ultimo, quello che forse l’occhio del sociologo guarda con maggiore curiosità.
  • Che ne sarà delle forme organizzative ed associative della politica e della società civile? Se ne potrà fare a meno? Saranno rinnovate e rinvigorite? Saranno davvero formazioni sociali più orizzontali, o le “minoranze organizzate” continueranno a dominarle e guidarle? E questo, secondo quali regole?
Ho già superato abbondantemente la soglia che mi è imposta dall’attenzione che mediamente i navigatori del web sono disposti a dedicare ad un post. Ma soprattutto, non so quali possano essere le risposte alle molte domande che ho voluto porre all’attenzione di chi legge. Potrei forse azzardare qualche previsione, ma avrei come solo riferimento l'esperienza del passato: che però, forse, davvero fra un anno o due sembrerà preistoria.

Di sicuro, c’è che si stanno aprendo diverse opportunità per nuove forme organizzative supportate da queste nuove modalità di relazione / azione / comunicazione. Staremo a vedere che cosa genereranno.

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