Secondo Marc Augé non è strano “che oggi si faccia a fatica a pensare lo spazio e l’alterità” (Tra i confini).
A volte si parla, a questo proposito, di crisi di identità. Ma questa è, per parlare più propriamente, una crisi dello spazio … e una crisi dell’alterità. Era la stabilità dell’altro che rendeva l’identità concepibile e facile.
L’“altro lontano”, infatti, lo incontriamo tutt’al più (quando noi siamo) in vacanza, o nei documentari. Per l’“altro vicino”, tutte le culture sono attrezzate con appropriate strategie e meccanismi di esclusione, che vanno dalla segregazione al pettegolezzo, passando per le divisioni delle città in quartieri su base etnica e/o sociale.
Sono questi i confini di cui parla Augé, i confini che la globalizzazione ha fatto saltare, “offuscando” la categoria dell’altro e, con essa, le certezze delle identità. Saltano i confini spaziali – quelli che le persone attraversano – ed insieme saltano i confini culturali – quelli che passano attraverso le persone e le comunità. I muri di recinzione costruiti a difesa dei confini sono davvero emblematici di questa nostra epoca.
L’identità si definisce per differenza, ed anche se è un fenomeno intrinsecamente dinamico, “funziona” solo in tanto in quanto ci appare stabile. Un facile esempio può essere quello dell’identità personale: in situazione normali, essa ci appare stabile ed immutabile (siamo sempre stati noi stessi) nonostante la chiara evidenza che non siamo sempre stati uguali a noi stessi.
C’è stata una fase della mia vita in cui sono stata alta circa 120 centimetri ed andavo pazza per le figurine. Oggi non sono più la stessa, ma giurerei di essere sempre io: non sono diventata un’altra persona.
Il problema dell’identità si pone rispetto a ciò che è altro da noi. Abbiamo difficoltà ad indicare ciò che ci definisce, ma troviamo facilmente ciò che ci rende “diversi”. L’espressione “mettere i paletti” – puntualizzare ciò che ci appartiene e ci distingue – è davvero appropriata.
Ogni immagine dell’“Altro” è un esercizio di riflessività che dice molto della cultura che l’ha elaborata e di solito molto poco dell’oggetto al quale si applica.
Ora, i rapporti di potere non solo si “riflettono” negli stereotipi, ma si riproducono attraverso di essi fino al punto da produrre il “rovesciamento dello stigma”, il meccanismo per cui il “giovane emarginato” si identifica in una controcultura, o gli immigrati si mettono a vendere artigianato “etnico” (e le controculture si prendono magari la loro “rivincita” integrandosi come “mode”). Ma anche il meccanismo per cui il figlio del musulmano, nato e cresciuto a Parigi o Londra, può finire con il riconoscersi in movimenti fondamentalisti che – da questo punto di vista – non sono meno post-moderni delle mode etniche.
a furia di parlare di islamici, a furia di voler dare un nome a un gruppo di persone che in molti casi non avevano alcuna intenzione di rivendicare la propria provenienza da questo o quel paese o la propria appartenenza a questa o quella religione, si è instillata in loro la voglia di dire: “ebbene sì, visto che continuano a ripetermelo son un beur, sono un islamico”.
Questi esempi mostrano ciò possiamo chiamare la “crisi dell’alterità”. La dissoluzione dei confini non ha eliminato le differenze, ma le ha “rispedite al mittente”, lasciandoci alle prese con “un mondo mobile e illeggibile” (è il titolo del primo saggio, di cui è disponibile qualche pagina in Google Books): il figlio dell’immigrato musulmano che cresce e viene educato in Italia, è italiano come mio figlio? o non è italiano? o è italiano in un modo diverso? riconoscere stessi diritti e stessi doveri è rispettoso delle “differenze”? o è una vera e propria forma di assimilazione?
Considerando la posta in gioco, e lasciando da parte il bon-ton del politicamente corretto (che non è una categoria scientifica, e tantomeno una categoria “critica”), non deve insomma stupire più di tanto che su questi temi il dibattito appaia ogni giorni più esasperato.
Immagine tratta da: Flickr (CC)
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