Da sociologa, raccolgo dalla rete qualche spunto sui significati che si possono intravvedere nei risultati di queste amministrative.
1. In primo luogo, naturalmente, il segno di una crisi profonda del berlusconismo, o anche - come si dice oggi - della narrazione berlusconiana, crisi che per la verità si sentiva nell'aria da almeno un paio di anni. Con la grande crisi finanziaria del 2008, era inevitabile che la gente si accorgesse di quello che era accaduto negli ultimi dieci-quindici anni: la forbice fra i ricchi e i poveri si è allargata, e il ceto medio si è impoverito. Non ci siamo arricchiti tutti, nel mercato libero e sregolato: «Caro Berlusconi, qualunque cosa mi racconti, il mio portafogli non mente».
2. Sono poi d'accordo con Bonomi, che vi legge l'esito dell'«esaurimento del ciclo espansivo di quel capitalismo molecolare che al Nord è stato il collante e il propulsore dell’asse Pdl-Lega. Ora la crisi ha prodotto trasformazioni economiche e nuove composizioni del tessuto produttivo» (Il Messaggero; vedi l'intervista completa a Bonomi). Bonomi chiama "capitalismo molecolare" il modello di sviluppo basato sulle "piccole e medie imprese globalizzate" che ha caratterizzato il post-fordismo italiano e il modello della Terza Italia, il Centro-Nord-Est in quanto "baricentro del modello italiano" (secondo Trigilia). E che sia ancora il baricentro, lo dimostra non solo il fatto che il declino del paese origina dalla crisi di quel modello, ma anche che non siamo in grado di reagire pensando a qualche cosa di altro e di diverso.
Proprio l'attaccamento a quel modello - un po' troppo legato ai settori industriali tradizionali - potrebbe essere diventato insomma la premessa di questa incapacità di trovare risposte.
3. Parrebbe inoltre che i risultati di queste elezioni siano le trombe che annunciano (con qualche ritardo) la fine degli anni Ottanta. L'atomismo sociale, in primo luogo. Già il "We Can" di Obama segnalava esplicitamente il definitivo tramonto dell'iper-individualismo: non "I Can", ma "We Can". Il potere - come possibilità di incidere sulla propria vita e sul mondo - non è (non lo si crede più) nel singolo, ma nel "noi": comunità locale, comunità politica, persino Stato (non è allo Stato che si stanno chiedendo soluzioni per uscire dalla crisi?).
Ma, più in generale, e in tutti i paesi dell'Occidente, i best-sellers di politica e sociologia si pongono la più classica delle questioni sociologiche: cos'è che ci tiene assieme? può esistere un'etica condivisa in un mondo così differenziato? Che poi, in pratica, significa: è giusto pagare le tasse per finanziare la sanità pubblica o le pensioni? è giusto vietare il velo nelle scuole? siamo uguali o siamo diversi? è giusto dare un sussidio ai disoccupati? un riparo ai senzatetto? accogliere i migranti? Ma soprattutto: è giusto che lo Stato si orienti ad una idea di società piuttosto che ad un altra? E se io non fossi d'accordo? ...
Domande che, fino a qualche anno fa, almeno negli Stati Uniti, avrebbero trovato una risposta ovvia: Ognuno per sé. Ma anche nel resto dei paesi occidentali lo Stato, per non orientarsi ad alcuna idea di società, portava avanti quella di Von Hayek, maestro ed ispiratore di Margareth Thatcher. Veniva meno, in realtà, la stessa idea di "società", a favore di atomi sociali che - nel mondo globale - si aggregano e disaggregano con grande facilità, dando luogo a formazioni sociali deboli, liquide. Un mondo sociale darwiniano, in cui è semplicemente giusto che chi riesce a guadagnare di più, non importa più di tanto come, se la goda e basta.
Attenzione, perché è una idea piuttosto diffusa, che rientra nell'etica del "perché non posso fare come io ritengo giusto fare?".
Ed è così che in questi anni, il sociale è diventato privato (l'istruzione, il lavoro, il benessere - welfare, i diritti), mentre la spiegazione sociologica tornava pian piano nell'alveo dell'economia o della psicologia, come prima di Durkheim.
4. Ma in questi risultati c'è chi ha visto anche la vittoria della partecipazione: online ed offline, tante le persone che hanno preso attivamente parte alla campagna (vedi il bel post di Dino Amenduni, sul Fatto Quotidiano di ieri); ma soprattutto - sembrerebbe - tanti i giovani che hanno votato per i sindaci. Per la politica che è vicina, e sulla quale forse più facilmente riescono a fare breccia le culture che cambiano (per tante ragioni, al di là della mera prossimità).
Da questo punto di vista, si può anche dire che abbiano vinto i territori. Lo stesso Berlusconi, nel tentativo di rifondare il partito, ha sottolineato l'esigenza di un maggiore rapporto con il territorio. Attenzione anche su questo punto, però: di questi tempi le aggregazioni sociali (i movimenti) di per loro restano tendenzialmente liquide. C'è bisogno di lavorare per "solidificarle".
5. Forse ci vedo troppe cose. Lo so. È un pensiero che non può non venire a chi legga i commenti di questi giorni. Concluderei, quindi, con un interrogativo. Non è mio, è di Aldo Bonomi: «È possibile delineare forme della politica che pensando, e non usando come una clava contro l'altro da sé territorio e comunità, vadano oltre il leghismo e il berlusconismo?» (Sotto la pelle dello Stato).
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