19 settembre 2012

Aggiornare un paio di software all'università

Detesto raccontare le storie di ordinaria burocrazia che si affrontano nella vita di tutti i giorni, all’università. Lo detesto perché ci passiamo tutti; perché sto messa innegabilmente meglio di una pensionata al minimo alle prese con il ritiro della pensione; e perché non mi piace unirmi al coro delle lamentele anti-Stato e anti-burocrazia.


Diciamo che in linea di massima penso che sia giusto fare di tutto per spendere il meno possibile, e del resto i fondi di ricerca sono non solo pochi, ma sempre meno, e quindi conviene anche a me spenderli al meglio. Anche i nostri amministrativi, altro non fanno che applicare le regole. A volte con eccesso di zelo, magari, ma mi sento di poter dire che stiamo su una stessa barca: abbiamo dei fondi, ognuno fa il suo lavoro, nessuno è produttivo, e nemmeno felice.


Di diverso dal solito, c’è che questa mattina mi è capitato di vedere le nostre farraginose procedure dal punto di vista di una impresa tedesca - nella fattispecie di qualche impiegato di una casa che produce e vende un software in tutto il mondo, che potrebbe aver letto i giornali negli ultimi mesi, e forse chissà anche negli ultimi giorni … soldi pubblici che in Italia vengono rubati a fiumi e poi …


In pratica, devo aggiornare due software, uno italiano e uno tedesco. Si tratta di aggiornamenti di licenze educational, una spesa veramente contenuta. Li potessi pagare io, lo farei di tasca mia (il pc che uso è mio personale, e la gran parte del software che uso è open source): ma la licenza oramai è del dipartimento … suppongo che per donare qualche decina di euro, dovrei presentare fedina penale e certificato antimafia. E forse non passerei i controlli, confesso di avere preso qualche multa.


Niente bandi, perché questi software sono molto specialistici e dunque non hanno rivenditori commerciali che potrebbero fare prezzi diversi. Né li vende la Consip. Meno male.


Per mia fortuna, e loro sfortuna, vanno ordinati ai produttori.


Prima cosa che non capisco. Per l’estero si pone ogni volta la questione della partita Iva, come se l’Iva fosse una recente innovazione nel sistema fiscale italiano. Confesso di non capirne assolutamente nulla, e di avere pure una certa resistenza a rifletterci su più di tanto, ma mi chiedo: se per qualunque cosa esistono procedure dettagliate in stile “protocollo per il lancio di una sonda aereospaziale”, non si potrebbe immaginare una procedura standard per transazioni commerciali con l’estero? Immagino che la risposta a questa mia domanda sia ovvia per qualunque commercialista, quindi mi fido. Non si può.


E sono stati pure fortunati, stavolta, i tedeschi: possono mandare la documentazione come pdf allegato alla mail. Prima, si doveva spedire per posta!


Tornando all’impiegato tedesco, non è la prima volta che ha a che fare con noi. Immagino che gli prenda un colpo quando arriva la mail. Vede che è arrivata e prima di aprirla, si stapperà una bella birra. Non si beve al lavoro, non si beve di mattina, ma quando si tratta delle regole degli italiani, non ha senso seguire le regole normali. Spesso, non ha proprio senso seguire le regole.


Al posto suo, essendo pragmatica e non ideologica quando si tratta di burocrazia, mi terrei in una teca d’oro l’incartamento delle procedure che hanno funzionato la volta prima per avere il privilegio di venderci il software (a conti fatti, ci andranno pure a rimettere). Lo farei senz’altro. Anche sapendo che probabilmente non servirebbe. Perché gli aggiornamenti maggiori vengono rilasciati ogni due-tre anni. In più, quello precedente, per logoramento personale e per pietà degli amministrativi italiani e tedeschi, l’ho anche saltato. Niente da fare, le procedure sono cambiate: l’incartamento della volta prima va nella spazzatura.


Poi provate a tradurre i nostri moduli dall’italiano all’inglese; ovvero provate prima a capirli in italiano, poi a tradurli, ed infine ad immaginare che cosa potranno capire dei tedeschi che li leggono nell’inglese tradotto dall’italiano.


Ma la cosa più strabiliante di tutte è che hanno pure rischiato di vedersi recapitare una bella richiesta di DURC! (penso che alla fine non gliela manderanno, è impossibile che abbiano pendenze con lo Stato italiano, e se non pagano le tasse in Germania non dovrebbero essere affari nostri: o sì?)


Lasciamo perdere le notizione da prima pagina: tot centinaia di migliaia di euro stanziati per la ricerca tornano al ministero. Non basterebbero cinque anni per spendere i fondi stanziati per due, e spendibili in tre.


Lasciamo perdere anche la quantità assurda di ostacoli banali ai rapporti con l’estero (l’internazionalizzazione).


Di diverso, stamattina c’è che mi si è formata davanti agli occhi l’immagine di un ufficio pieno di tedeschi che devono subire ogni sorta di verifiche prima di poter incassare qualche decina di euro da una pubblica amministrazione italiana - a fronte di insistenti richieste da parte del governo italiano di sollecita solidarietà europea. Si saranno pure impietositi di me e dei nostri uffici, ma penso che si saranno anche chiesti: “Ma gli italiani, ‘sti soldi pubblici, come cavolo faranno a metterseli in tasca?”.


Non si dica in Germania che gli italiani non lavorano.

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