3 settembre 2011

Rispondo ad una mail. Re: élites globali

Il 27 agosto mi è arrivata una lunga mail di commento al post "L'Italia alle prese con le élites globali". Riporto qui alcuni stralci, e colgo l'occasione per tornare su alcuni punti.
Il mondo è globale per definizione. Ciò che è avvenuto negli ultimi anni è stata un'accelerazione di un fenomeno insito nel capitalismo: la sua estensione a livello mondiale. Fin dalle sue origini esso si muove pensando globale. Per cui, più che di globalizzazione multilaterale, si può parlare di occidentalizzazione del mondo, visto che il capitalismo è nato in occidente e ha pervaso di sé il mondo intero.
Io personalmente penso che la fase di occidentalizzazione del mondo sia terminata. Forse è anche terminata da un bel po', solo che noi occidentali eravamo talmente indifferenti a quel che accadeva altrove, che non ce ne siamo neanche accorti. Ma è difficile dirlo, senza sfera di cristallo: staremo a vedere nei prossimi dieci anni.
In questo articolo(articolo?), sopra si asserisce che le elites (cosa sono e chi sono le elites?) vanno dove conviene, dando implicitamente un giudizio di merito sulla loro azione, giudizio che si percepisce essere negativo.
Chi sono le élites globali. In termini estremamente semplici, sono quelle persone e quei gruppi industriali e finanziari, che di fatto vivono e producono su scala globale o comunque transnazionale. Persone e società che non hanno bisogno di allocarsi in un posto specifico, possono scegliere dove vivere, dove produrre, dove pagare le tasse.


Non parlo certo delle élites globali dei complottisti, della lobby pluto-giudaico-massonica degli Illuminati (ne ha parlato pure Tremonti? ) che vogliono stabilire il Nuovo Ordine Mondiale e amenità simili (basta cercare questi termini su Google per sapere di che parlo).

Il mio giudizio non è affatto negativo. In linea di massima io penso che le persone abbiano tutto il diritto di muoversi e di trovare le condizioni migliori per vivere. Chi crede nel mercato sosterrà giustamente che in questo modo i consumatori troveranno i prodotti con i prezzi migliori. Chi crede che siamo tutti uguali a questo mondo, non potrà certo sostenere che noi abbiamo diritto a lavorare e mangiare (con annessi diritti), e cinesi, indiani, brasiliani e tunisini no (oppure sì, ma senza diritti).

Io stessa sono disposta a vivere dove mi conviene. Non vivo nella città dove sono nata, e se trovassi un posto dove guadagnare di più e magari pagare meno tasse e avere servizi migliori, ci farei senz'altro un pensiero. Lo farebbe chiunque. Sono proprio curiosa di vedere, per esempio, quando (e se) il federalismo fiscale sarà operativo, quanti di quelli che oggi difendono le identità dei loro comuni si sposteranno 10 chilometri più in là per cambiare regione ed avere ospedali migliori ...

Ma sono due le diseguaglianze che volevo sottolineare, nel mio "articolo".

La prima riguarda il fatto che mi pare piuttosto ovvio che Marchionne - come persona- si può spostare a suo piacimento (la Fiat come azienda un po' meno); io mi posso spostare in misura già assai più limitata; il profugo del Sudan si sposta con difficoltà; il disoccupato del Maghreb dovrebbe invece restarsene a casa sua. Tutto ciò a fronte di capitali e merci che invece circolano liberamente, con controlli magari rigorosi, ma comunque limitati al minimo.

La seconda discende invece dal fatto che gli stati nazionali non sono in grado di regolamentare le attività di quelli che si possono spostare, per quanto si impegnino a regolamentare quelle di coloro che invece non possono (e che sono quindi sempre più svantaggiati nella competizione globale). Gli stati nazionali possono infatti esercitare la loro sovranità solo sul loro territorio, ma non hanno molti strumenti per intervenire a livello globale. Poiché però quello che avviene a livello globale è di grandissima rilevanza a livello locale, dobbiamo prendere atto che gli stati nazionali hanno scarsissime possibilità di intervenire su alcuni dei fenomeni più rilevanti fra quelli che influenzano la vita di tutti i cittadini.
dovremmo anche pensare che se un'impresa con capitali stranieri venisse da noi lo farebbe esclusivamente per profitto. Per cui bisognerebbe fare attenzione a (almeno) due cose: 1. Stabilire delle regole chiare per investire nel nostro paese, 2. Portare il paese a non risentire economicamente e socialmente di un eventuale abbandono degli investimenti dell'impresa X nel nostro paese.
Queste sono esattamente le cose che oggi uno stato nazionale (quale che sia) sembra non essere in grado di fare, come la vicenda Fiat ha chiaramente dimostrato. Figuriamoci se si fosse trattato di una impresa che avesse dovuto investire veramente ed ex-novo nel nostro paese (ad oggi, la Fiat ha evitato i costi del minacciato spostamento della produzione e la perdita di know-how).
Penso che da parte di tutte quelle organizzazioni, sociali, economiche, politiche che hanno fatto delle rivendicazioni dei diritti civili, politici, del lavoro e via dicendo, il loro manifesto, sia necessario un cambio di rotta. Esse, non i singoli, si devono ripensare a livello globale se vogliono rispondere alla minaccia di un mondo monocolore e globalizzato sotto la voglia di profitti sempre più lucrosi e iirispettosi dell'essere umano. Allora, se vogliamo difendere i nostri diritti, in Italia, in Europa, dobbiamo pensare che essi devono innanzitutto essere esportati e trapiantati in ogni dove, a qualunque latitudine.
Infatti. Ma il sociologo si deve sempre chiedere: chi? come? Quali sono gli attori sociali che si dovrebbero occupare di "esportare e trapiantare" i diritti? In quale modo potrebbero farlo? Attraverso quali forme organizzative? Queste sono alcune delle domande alle quali mi pare necessario rispondere in maniera innovativa, al di là del mero protezionismo. Consideri anche che gli stessi sindacati e i partiti politici attingono iscritti, voti e risorse a livello nazionale, quando non locale.

Mi permetto di aggiungere - visto che la mail mi è stata inviata da uno studente - che un sociologo dovrebbe  esercitarsi a scrivere evitando il congiuntivo esortativo, e qualunque formula di carattere ottativo. Queste servono per esprimere, appunto, esortazioni, consigli (come in queste mie stesse righe) o desideri, non analisi o proposte.

Nella sua lettera lei usa molto spesso il verbo "dovere". Purtroppo, dobbiamo accettare che non "si deve" fare proprio niente: a molti di quelli che oggi hanno il potere (di fare concretamente qualcosa) le cose vanno bene così, e non sentono questa impellenza etica.

Ed infatti - forse anche per mancanza di idee, o più semplicemente per abitudine - discutono di come riuscire a "cambiare le cose, affinché tutto resti uguale". Ma questo - direi - oramai non è più possibile.

1 commento:

  1. Sarebbe interessante capire come mai, nonostante la globalizzazione, non si siano realizzati processi di convergenza politica e sindacale a livello più ampio. Come mai non si parli più di partiti o famiglie politiche europee, di patti di consultazione fra le due sponde dell'atlantico. Come mai anche i Verdi si siano ritirati nella dimensione nazionale e l'ILO si sia ridotta a centro studi. Proprio mentre il mondo si globalizzava, l'inglese si diffondeva, le comunicazioni si semplificavano, le grandi organizzazioni politiche e sociali abbandonavano e buttavano a mare quanto di buono, passo dopo passo avevano costruito. E non parlo del periodo della guerra fredda ma degli anni ottanta e novanta. C'era più afflato internazionalista prima dei cellulari e di internet di quanto ve ne sia nell'era della connessione globale permanente. Capisco lo smarrimento del singolo individuo e le difese identitarie della piccola comunità locale, ma le classi politiche e sindacali non erano fatte da persone con competenze e conoscenze adeguate? Perché l'imprenditore si è globalizzato e il politico è stato travolto?
    Pensieri di fine estate buttati là.

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